Mia mamma è sempre stata una gran ghiottona di Fichi d’India; dato che il loro periodo di maturazione inizia proprio a fine Agosto, pavlovianamente, per più di 30 anni, ho associato questo frutto alla fine delle vacanze – e non è una bella associazione. In età matura, l’ego gastronomico ha preso  il sopravvento e – sangue non mente -ora mi ritrovo spesso ad arrampicarmi su muretti e piccole pareti rocciose per farne scorpacciata.

La opuntia ficus-indica pare che si sia trovata proprio bene sui nostri terreni, in maniera eccezionale su quelli della Sicilia; si tratta di un cactus originario del Messico – dove era chiamato Pera Spinosa e veniva usato per scambi commerciali – importato verosimilmente da Colombo, al suo ritorno dalle “Indie”. Si diffuse rapidamente nel sud dell’Europa – soprattutto Spagna, Grecia e Italia – e in nord-Africa prima, per poi arrivare fino in Medio Oriente. L’importanza della pianta per gli Aztechi è testimoniata anche nel Codice Mendoza risalente al 1540; ancora oggi, la pianta campeggia sullo stemma del Messico. All’inizio del ‘900 la pianta fu importata anche negli Stati Uniti per far fronte alla sempre maggior richiesta che proveniva dagli immigrati italiani e greci prima, dai messicani poi, attorno agli anni ’70.

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Una pianta adatta a diverse funzioni: alimentazione, cosmesi, fitoterapia, nonché allevamento e agricoltura. Ancora oggi, soprattutto negli stati del sud degli Stati Uniti, viene utilizzata per disegnare i confini degli appezzamenti di terra, avendo anche la funzione di barriera per gli allevamenti bovini. Questi ultimi sfruttano poi le parti più tenere della pianta per dissetarsi. Le fibre presenti nella pianta consentono di controllare l’appetito, ridurre l’assimilazione di grassi e zuccheri e contrastare la stitichezza. Inoltre il fico d’India facilita l’eliminazione del grasso addominale e dei liquidi in eccesso; ricco in sali minerali e antiossidanti (potassio e magnesio in primis) il succo favorisce la produzione di sostanze antinfiammatorie che stimolano la diuresi e contrastano la ritenzione e la cellulite. L’opuntiamannano – una mucillagine della pianta – ha la capacità di legare i grassi e gli zuccheri ingeriti, rendendoli così meno assimilabili per l’organismo, che li elimina senza trasformarli in adipe.

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Da un punto di vista alimentare potremmo affermare che il Fico d’India è come il maiale: non si butta via niente. Ben noti sono i frutti della pianta, di due tipi: quelli maturati a fine agosto, cosiddetti agostani, di dimensioni ridotte, e i tardivi o bastardoni, più grossi e succulenti, che arrivano sul mercato in autunno; con i frutti si possono arricchire insalate, preparare mousse di frutta o ottime confetture. E’ possibile recuperare anche le bucce dei frutti che, dopo essere state sciacquate in acqua corrente e sbianchite per un paio di minuti, possono essere preparate in frittura – basta tamponarle per bene, infarinarle e friggerle in olio di semi fino a doratura – oppure in agrodolce, a mo’ di caponata (ricetta qui). Anche le foglie – che poi foglie non sono, ma trattasi di ramificazioni dell’arbusto – sono commestibili. In messico si chiamano Nopales; vengono sbucciate e poi ridotte in filetti usati come farcitura di frittate, oppure in agrodolce, come se fossero dei cetriolini.