PHNOM PENH – Il copione già noto prevede traffico, strada polverosa, odore di fogna in sottofondo e di barbecue caramellato quasi ad ogni angolo; nonostante sia già notte, attraversando Phnom Penh a bordo di un tuk tuk sembra quasi che abbiano acceso un phon gigante per il nostro arrivo. La stradina tranquilla che ospita il nostro hotel, dipanandosi dal caos della Nomoron Road, non fa eccezione per i tanti piccoli cumuli di spazzatura incontrati fin qui, speriamo almeno che stanotte li ritirino; fortunatamente il Boutique Hotel è molto carino e pulito. All’angolo si intravedono le mura del palazzo reale ed una garritta dell’esercito a sbarrare il traffico. Posizione strategica: un isolato a piedi e siamo al Palazzo Reale; nel mentre un simpatico e amichevole autista di tuk tuk si offre di farci da guida e ci dice che oggi, domenica, il palazzo è chiuso al mattino, meglio fare un giro sul tuk tuk come fanno tutti gli altri turisti. Ma abbiamo ancora nelle gambe 24h di volo, tanta voglia di camminare e di immergerci nella vita domenicale fatta di famiglie e zucchero filato, di credenti e di pietanze offerte al Buddha, di venditori di becchime e piccioni, nel bel tratto di lungofiume antistante il Palazzo Reale. E poi di visitarlo, dato che – ca va sans dire – quella della chiusura domenicale era una balla.
Gran parte di quanto c’è da vedere a PP corre assieme al fiume per una dozzina di isolati e non è poi una gran fatica risalire verso nord accompagnando il Tonle Sap, passando per i go-go bar con le ragazze che aspettano ricchi turisti europei, i mercati di cibo all’aria aperta, su fino al Wat Phnom, un tempio di quelli veri, vissuti, consumati dalla folla. Qui l’incenso serve davvero, perché nel tempietto Vietnamita di fianco, le offerte sono di carne cruda e uova rotte sul muso dei leoni di pietra, a creare un velo di rancido con l’aiuto dei 30 gradi. E Penh, paffutella e sorridente, dispensa fortuna e serenità a tutti in cambio di una mano di rossetto.
Psar Thmei, il Mercato Centrale, sembra quasi un’astronave poggiatasi dà chissà dove, con quello stile art-decò ed una cupola color panna. Le bancarelle sono ordinate ed anche ricche al suo interno, dove regna una quiete quasi inquietante per una capitale asiatica; la sezione cibi c’è, ma ai margini, a relegare l’odore solo nelle zone esterne.
Con l’incedere del buio saliamo di livello, circa 10 per la precisione, tanti sono i piani dello sky bar sul Tonle Sap; si vede il Mekong e le luci delle auto in coda sui vialoni, mentre le barche che portano i turisti per una crociera sul fiume al tramonto, rigorosamente “all inclusive”, disegnano scie luminose sulle nostre foto con otturatore aperto.
Il barbecue – tanto decantato dalla LP – del ristorante Red Cow è una mezza delusione, ma ci serve per fare i conti col muro linguistico che si può incontrare qui appena si esce dalle rotte turistiche.
BATTAMBONG – Sveglia presto. Molto. Fuso ancora lì a fare il suo sporco lavoro. Autobus. Piccolo. Stretti. Caldo. Campagna. Polvere. Bambini allo stato brado. Vacche magrissime. Polvere. Cani. Canali. Campagna. E vita che scorre senza soluzione di continuità ai bordi della statale. Un caloroso benvenuto a Battambang da parte di un dio nero, non so se induista o buddista (ma qui è un gran mix). Un centro carino, non caotico, lungo un fiume ridotto ai minimi termini in questo periodo, una bella passeggiata lungo il suo corso con giardini e bambini allo stato brado, polvere, edifici coloniali surclassati da insegne kitch, un mercato coperto di quelli veri, dove sembra però che tutti qui abbiano appreso solo i mestieri di sarta, parrucchiera o manicure.
Battambang è una pausa nello longa-marcia fino a Siem Reap e vi trascorriamo una serata; del resto c’è anche qualche attività carina. Come il bamboo train, che sarebbe anche un’esperienza molto particolare, se non fosse per la campagna piatta, per i campi di riso in pieno rinnovamento in questo periodo (senz’acqua e con le sterpaglie bruciate); un tragitto di 20 minuti circa, tra andata e ritorno, su un carrello ferroviario, lungo un tratto dei binari dismessi delle ferrovie cambogiane, un ritorno al luna park. Che fa un po’ male al culo! Meglio forse farlo in un altro periodo però, quando la campagna è più rigogliosa e regala foto più verdi. Battambang è anche la sede del circo della Cambogia Phare Ponleu Selpak (https://www.facebook.com/phareponleuselpak/), un circo di atleti acrobati, senza animali o clown; la sera, al campus del circo, l’attesa per lo spettacolo si stempera tra una galleria d’arte – con le opere dei ragazzi che frequentano la scuola locale – una birretta, le prove dei ragazzini nella palestra e qualche chiacchiera con gli altri turisti. Lo spettacolo di danza e acrobazie è davvero molto molto bello; e il fatto che questa scuola tolga i bimbi dalla strada invoglia ancora più all’acquisto del biglietto. Serata chiusa poi in bellezza (e bontà) con una cena al Jaan Bai (https://goo.gl/maps/pWuWuZtjf752) che da sola vale il viaggio a Battambang; cinque piatti che sono un piccolo viaggio in Asia, senza essere contaminato dal gusto occidentale per arruffianare i soli clienti che possono permetterselo. E anche qui si tolgono ragazzi dalla strada: soldi spesi bene due volte, peccato non avere un’altra serata disponibile a Battambang per una seconda cena.
SIEM REAP e ANGKOR – Siem Reap è la meta che non ti aspetti, nel bene e nel male; pensi che sia un villaggetto dove alloggiare per visitare i templi di Angkor e invece ti trovi di fronte ad una vera e propria città; piuttosto che avere una città dormitorio a 5km dalla maggior fonte di entrate del regno, hanno preferito avere una città con tutto, costruita praticamente da zero. A SR si può tirare mattino ballando, rimpinzarsi fino a scoppiare di ottimo cibo, passare un’ora nel traffico, trascorrere una serata romantica in un angolino sul fiume, lasciarsi andare allo shopping compulsivo, guardare un film al cinema o uno spettacolo serale del circo di Battambong, che qui ha la sua seconda sede. In pratica tutto quello che potrebbe essere l’inferno in terra per una certa categoria di viaggiatore. Ma alla fine sono tollerante, per cui mi dedicherò a cenare con stile e gusto, dato che le rovine richiederanno molte energie.
Angkor ha bisogno di un piano strategico per essere affrontato; innanzitutto, come spostarsi. I templi sono maestosi e distanti tra loro (fino a 30 km), per cui se si è allenati per l’iron man, vanno bene le bici da noleggiare in città (quindi circa 10km prima), oppure ci sono le ebike a 8$/gg, gli scooter a 10$/gg anche se in teoria il noleggio di motorini è vietato – ma tanto il noleggiatore ti dice dove sono i blocchi e che strada fare per evitarli – oppure i tuk tuk, che partono da almeno 30$/gg, ma restano a disposizione per tutta la giornata. Noi abbiamo preso lo scooter, sfidando – oltre la polizia – l’assenza totale di codice della strada che vige in Cambogia.
Giorno 1 – zona nord est e Angkor Wat nel pomeriggio
Dopo aver acquistato il biglietto al ticket center, unico luogo autorizzato, che sembra quasi il salone dei check-in di un aeroporto, si risale verso nord lungo la stessa strada fuori città, arrivando in bocca al Banteay Kdei, un tempio non piccolo, bello, circondato dalla jungla, che ci fornisce solo il primo assaggio della gran fatica richiesta per andare su e giù per corridoi e gradoni. Di fronte, il bacino artificiale Srah Srang ha una bella terrazza dove rilassarsi e contemplare il laghetto artificiale all’ombra delle palme, ascoltando le cantilene dei monaci buddisti che arrivano dal vicino tempio. Proseguendo verso nord, al primo bivio a sinistra si arriva al Tah Phrom, il tempio visitato da Angelina Jolie / Lara Croft in Tomb Rider, bello, molto grande, labirintico e con la particolarità di alcune grosse radici che si sono impossessate delle mura. E si inizia a maledire il turismo di massa in generale e quello cinese in particolare. Dopo appena 2 templi serve un break per non stramazzare al suolo per il caldo e la fatica. Conviene poi proseguire, superato il Ta Phrom, lungo la strada, verso ovest, ma prima di entrare nel recinto di Angkor Thom, ci sono 2 templi minori: il Ta Keo a lato strada, che ricorda un po’ una piramide Maya, e il Ta Neo, assolutamente da non perdere perché, seppur piccolo, ha il fascino della jungla che si impossessa delle rovine; inoltre è difficile da raggiungere per cui, oltre al custode, si sentiranno solo le cicale e gli uccelli della jungla. Nel tardo pomeriggio è il momento migliore per visitare l’Angkor Wat, che guarda ad occidente, attraversando l’Angkor Thom, puntando ad ovest, passando sotto una delle sue magnifiche porte con i faccioni del re dal nome impronunciabile che le fece costruire, per poi svoltare a sinistra verso sud, attraversando un’altra porta, piena di scimmie che scorazzano sui mattoni. Il primo pensiero, giunti all’AW, è per rimaledire il turismo di massa in generale e quello cinese in particolare, nonché tutti quelli che si infilano nelle vostre foto, rimpiangendo di non esser stati qui una dozzina d’anni fa. L’AW è bellissimo, maestoso, fotogenico, mettiamoci pure tutti gli aggettivi che vogliamo, ma la mancanza di vera e propria fede e la pressione turistica gli fanno perdere parecchio fascino. E poi credo sia un tempio che dia il meglio di sé nella vista di insieme (non a caso c’è una bella mongolfiera pronta per turisti danarosi) più che nei particolari. Comunque al tramonto è uno spettacolo! Devo ammettere che avere un hotel con piscina a SR è un plus non da poco; tornare stremati al tramonto e concedersi un fresco tuffo serale, riconcilia col mondo.
Pronti per la prima sera a SR ci rendiamo conto di aver preso un hotel a trenta passi dal super-casino serale (ahinoi); poco male, andiamo prima alla ricerca dei mercati, per scoprire che qui son tutti night-market oramai tutti votati al turismo, che la paccottiglia abbonda, che il lungofiume con i suoi giardini non poi così male e che a SR ci sono forse le uniche due strade pedonali di tutta la Cambogia (ad eccezione delle due strade che circondano il palazzo reale a PP). La famosa / famigerata pub-street e l’altra che la incrocia. Qui è il luna park dei locali notturni, la sagra dell’aperitivo, la fiera dei ristoranti, insomma non ci si annoia e la scelta è davvero ampia. E poi, sul presto, non è neanche malissimo. La nostra prima cena è al Khmer Kitchen (https://www.facebook.com/Khmerkitchens1999/), un locale per vagonate di turisti che prende tre dei quattro lati dell’isolato, di cui uno di fronte al mercato centrale. Ma uno dei tre lati è in una viuzza laterale pedonale, dove sembra di stare in una trattoria con dieci tavoli e la cucina locale è buona buona buona, con un amok super.
Giorno 2 – Angkor Thom, partendo dal Bayon al mattino e templi minori al nord nel pomeriggio. Spoiler: è più tosta del giorno 1
Angkor Thom è una grossa area racchiusa da un fossato – avevano questa mania all’epoca – che racchiude tante cose. Innanzitutto le porte, spettacolari sul fossato, con uno stile architettonico che si ripeterà anche su altri ponti, con le statue del Buddah sui due lati del ponte e quattro faccioni a sovrastare l’ingresso. Varcata la porta, lungo la strada principale si arriva al Bayon; e qui i faccioni diventano oltre duecento, con quell’espressione del re tra il burlesco e l’enigmatico a controllare i turisti da qualsiasi angolazione. Il Bayon va visitato al mattino, per questioni di luce; è un bel sali-scendi e un rimaledire il turismo di massa in generale e quello cinese in particolare. Però poi migliora, perché una volta smarcati l’ Angkor Wat, il Ta Phrom e il Bayon, le masse si volatilizzano. A cominciare dal Baphuon, massiccio ed imponente, una replica del mitologico monte Mehru, con un Budda disteso sul retro di dimensioni davvero notevoli, peccato resti solo la faccia. Pausa rifocillante alle bancarelle antistanti e poi si prosegue lungo il lato occidentale, con la Terrazza degli elefanti, quel poco che resta del fu Palazzo Imperiale, che di imperiale ha comunque una signora cinta muraria, e il tempietto di Preah Palillay, anche questo raggiunto da nessuno e preda della vegetazione, molto bello. Si esce dalla jungla verso la strada principale all’altezza della Terrazza del re lebbroso, il cui muro di contenimento contiene circa diecimila effigi del Budda scolpite nella pietra. Bello bello. A questo punto, esauriti i templi nel recinto del Angkor Thom, bisogna rimettersi in moto ed uscire dal lato nord, seguendo la strada verso est, per arrivare al Preah Khan, uno dei più grandi, sebbene non così famoso, ha un fossato davvero bello e fotogenico, soprattutto con la luce del tramonto; rivaleggia in dimensioni con il Tah Prom, ma non è messo altrettanto bene, anche se stupisce per il numero di salette che si incontrano attraversandolo da un capo all’altro. Continuando vs est si incontra il Jayatataka un piccolo tempio-piscina che si trova su un’isola artificiale ricavata nel bacino del East Maray; una spettacolare passeggiata su ponte di bambù attraversa il lago artificiale da cui spuntano tantissimi tronchi d’albero, nella luce diafana di un pomeriggio invernale, rendendo la passeggiata davvero affascinante. Non è ancora il tramonto quando ci avviamo verso l’hotel, ma siamo davvero lessi ed abbiamo visto il 90% dei tempi. L’idea del tuffo in piscina ci alletta e soprattutto quello della cena prenotata al Mie cafè (https://www.facebook.com/Miecafe-siem-reap-2013307038945918/), un ristorante fuori dal centro incasinato, in una splendida villa in legno con un bellissimo giardino; cucina asiatica molto curata che strizza l’occhio ai clienti occidentali. Tutto ottimo ma senz’anima.
Giorno 3 Bang Mealea e Roulos – Impossibile affrontare in scooter i settanta km che separano SR dal Bang Malea, data la totale assenza di segnali stradali e le barriere linguistiche; meglio affidarsi ad un autista di tuk-tuk che per una trentina di dollari sarà a disposizione quasi tutta la giornata. Dopo un’oretta che avremmo preferito fare in una vettura chiusa, si arriva al tempio di Bang Malea – ingresso non incluso nel biglietto di AW (5$ extra); il tempio è parzialmente invaso dalla jungla, ma sono state approntate delle passerelle di legno che consentono di attraversarlo e sembra davvero di essere sul set di un film di Indiana Jones, ma un Indiana Jones che maledice il turismo di massa in generale e quello cinese in particolare. Basta però saltare un cartello che segna il percorso ed entrare in un cortile non segnalato, che i turisti e i cinesi scompaiono. Comunque molto molto valido. Sulla via del ritorno, quasi alle porte di SR c’è il sito di Roulos (incluso nel biglietto di AW) con il Preah Ko, un tempio induista antecedente alla fondazione di AW, ed il bellissimo tempio di Bakong, altra rappresentazione del sacro monte Mehru, con uno splendido fossato a circondarlo.
Ultima sera nella movida di SR; ci concediamo un aperitivo al Miss Wong, un bel bar con ambientazioni coloniali ed una carta dei gin sconfinata (https://www.facebook.com/misswongcocktailbar/) chiudiamo in bellezza all’ottimo ristorante vegetariano Chamkar (https://www.facebook.com/FreshOrganicfoods/) in una stradina pedonale tranquilla, con un menù che invoglia ad ordinare tutto e dove tutto è davvero molto buono, a cominciare dall’insalata di germogli di banano.
KOH RONG SANLOEM – Tuk tuk, aereo, Shianoukville, tuk tuk, nave, benvenuti a Koh Rong Sanloem. Dato che non eravamo sicuri di stare troppo lontani dalla pazza folla, ci siamo scelti una spiaggia isolata dalle altre – anche via terra – e con solo 2 resort. Dieci bungalow in legno e un ristorantino, tutto molto basic e rilassato, niente musica, qualche altalena tra gli alberi, lettini, pontile, baia da paura con jungla sullo sfondo, maree lunghe, acqua trasparente, cucina non male, quattro giorni di relax e sole come se non ci fosse un domani. Al momento di partire la brutta notizia: il Sandy Beach chiude e se lo pappa il resort cinese di fianco. E giù lacrime.
KAMPOT – Sandy beach > Saracen bay > Sianoukville via M’Pay bay > Novanta minuti di attesa sulla Serendipity beach mangiucchiando e sbevazzando > Minibus fino alla stazione di bus > 1 ora di ritardo > Quattro ore di bus > Kampot … praticamente un rapimento.
Kampot al tramonto, col quartiere coloniale che si tinge di rosa, è davvero deliziosa; devono aver avuto lo stesso pensiero tutti i pensionati maschi francesi (ma anche anglofoni) ex fricchettoni che si sono stabiliti qui, alcuni accompagnati da signore locali, altri no. Il bel quartiere coloniale lungo il fiume ci ruba un mare di foto e veniamo quasi “rapiti” da tranquillità e pulizia. Peccato per la pessima cena in un ristorantino su una chiatta sul fiume. Al mattino dopo abbiamo giusto il tempo per fare un salto al negozio-museo della Farmlink (http://www.farmlink-cambodia.com/), una delle più grosse coltivazioni di pepe di Kampot, che ha anche una piccola piantagione nel giardino; ottimi prodotti e prodighi di spiegazioni.
KEP – Kep è a solo mezz’ora ed è il luogo delle ville dei benestanti – o almeno lo era. E’ poco più di un incrocio con una bella spiaggia ombreggiata da grossi alberi, dove il granchio la fa da padrone; lungo la strada che costeggia la spiaggia, oltre ai soliti venditori di cibo con i loro carrettini che si trovano un po’ ovunque, qui ci sono delle signore che girano con delle buste di plastica piene di granchi cotti al vapore e un po’ tutti – locals e turisti – ne approfittano per improvvisare dei picnic sul marciapiede o in spiaggia. E al tramonto una bella spremuta di canna da zucchero sur la plage. Per l’ultima cena al mare puntiamo sulla specialità locale, al Krab Market, una sequenza di ristorantini sul mare che cucinano i granchi. Scegliamo l’Holy Crab che ha un menù più moderno (https://www.facebook.com/pages/Holy-Crab-Kep/163581377636678) e l’Amok al granchio è davvero fenomenale.
PHOM PENH 2 – Dopo un altro rapimento in bus, bloccati nel traffico della capitale per un paio d’ore in ingresso, giungiamo al terminal bus vicino al Mercato Centrale; la fame è tanta ed il Dim Sum Emperors (https://www.facebook.com/dimsumemperors/) proprio di fronte alla fermata del bus sembra chiamarci; ravioloni misti cinesi davvero ottimi, al primo piano, isolati dal traffico e rinfrescati dall’air-con. Giusto il tempo di lasciare le borse in hotel per poi tornare allo shopping compulsivo al Russian market, che però è prossimo alla chiusura. Ci resta allora tutto il tempo per uno spettacolo che va assolutamente visto; quello del balletto reale tradizionale cambogiano, cancellato dai Khmer Rouge e adesso riportato sulle scene dall’associazione Cambodian Living Arts (https://experience.cambodianlivingarts.org/dance-show/), e tramandata ai giovani da quella che era – all’epoca della presa del potere dei Khmer Rossi – la prima ballerina del balletto reale. All’uscita non possiamo mancare un aperitivo al Foreign Correspondant’s Club, fermo ai fasti degli anni ‘70, quando qui si riunivano i giornalisti esteri per capire cosa fare con l’avanzata dei Khmer Rossi. E poi alla spasmodica ricerca di un hamburger finiamo all’ottimo Riverside Cafè, in una bella palazzina coloniale e con ottime birre.
Lasciamo all’ultimo giorno, quando gli occhi e il cuore sono ormai pieni di belle cose, la visita al Museo del genocidio Tuol Sleng (http://www.killingfieldsmuseum.com/s21-victims.html), meglio noto come S-21, il liceo di detenzione degli oppositori politici dei Khmer Rossi; in realtà era considerato oppositore chiunque avesse ricoperto un qualsiasi ruolo nell’amministrazione precedente, chiunque parlasse francese, chiunque avesse un minimo di istruzione. Ora è un museo, è un museo che fa davvero male, dove hanno lasciato i letti e gli strumenti di tortura così come li hanno trovati al momento della liberazione. I corpi torturati non vi sono più, ma le gigantografie delle foto prese dai “liberatori” vietnamiti sono li alla parete, talvolta talmente orribili da richiedere una piccola censura sulle scene più atroci. All’uscita i sopravvissuti che hanno scritto libri son lì vendere i loro libri a firmare le copie. Mi piacerebbe fermarmi a parlare ma c’è la barriera linguistica e una fila di turisti che bramano la propria copia firmata, neanche fossero delle rock star. Per i campi di sterminio, passo la mano, grazie. Torniamo al Russian Market, ma avendo fatto ricognizione ieri, ci basta una mezz’ora. Il vero mercato dove i turisti non vanno e ci sono solo i Phnom Penh-esi è il Psar O’Russey: turisti zero, labirinti di merci, inglese zero, contrattare zero e se ci provi si incazzano pure (prima volta in Cambogia); ne usciamo con sei kg di merci in più tra thè, caffè, funghi e bicchieri thermos. Però bello bello e autentico. Pausa pranzo con menzione d’onore per il Caffè Aroma di fronte all’entrata del museo nazionale, dove si mangiano mezzè libanesi degne di Beirut (eh si, siamo satolli di cucina agrodolce) e poi un paio d’ore in questo bellissimo museo, con una collezione infinita di statue khmer in un edificio che richiama il palazzo reale e con un bellissimo giardino interno. L’ultima giornata volge al termine; ci resta giusto il tempo per l’ultimo tramonto sorseggiando un drink al dodicesimo piano dello sky bar del Paragon Hotel (https://www.facebook.com/paragonhotelandskybar/) ed un’ultima cena sulle rive del fiume, al Yi Sang (https://www.facebook.com/yisangctm/).
Ci aspettano, in sequenza, un tuk-tuk, l’aeroporto e un volo Emirates per Roma.
Battambang GANESHA FAMILY GUESTHOUSE https://www.facebook.com/GaneshaFamilyGuesthouseBattambang/
Phnom Penh SUITE HOME HOTEL
https://www.facebook.com/The-SuiteHome-Boutique-Hotel-282860438511860/
Kampot TWIN HOME GUESTHOUSE https://www.facebook.com/twinhome.kampot/
Siam Raep
http://www.apsaracentrepole.com/