Giakarta

Con gli anni mi sto convincendo sempre più del fatto che in realtà io preferisca viaggiar a febbraio per partire con 9°C in Italia, proseguire con un bel freschino di 10/14h – grazie all’aria condizionata dell’aereo – per poi avere SBEM 30°C ed umidità soffocante all’apertura delle porte degli arrivi a destinazione. E in questo, Giakarta mi dà delle gran soddisfazioni.

Un po’ troppo asettico l’ingresso nel paese col visto digitale, non si incrocia nessuno, se non porte automatizzate con telecamera, perdendo quel fascino misterioso dell’ufficiale doganale che, con lo sguardo chino sui tuoi dati del passaporto, non ti caga neanche a domanda gentile e rispettosa, niente timbro, niente di niente. Un plauso alle assistenti che ti aiutano con i successivi check – tutti on line, tutti su mobile – sui dati sanitari e finanziari, che hanno praticamente imparato tutti i settaggi di tutti i telefoni del mondo e con una velocità mostruosa ti connettono alla rete gratis delle dogane.

Usciti nell’aria a 30°C col 97,7% di umidità si apre il rompicapo dei taxi; ce ne sono diversi tipi e alcuni li puoi prendere solo con app; scegliamo un NCC, salvo poi scoprire che un taxi classico a tassametro ci sarebbe costato la metà.

E benvenuti in Asia again … traffico, sporcizia, traffico, grattacieli,  baracche, traffico e cibo da strada come se non ci fosse un domani. Alloggiamo in un pessimo hotel suggerito dalla pessima Lonely Planet, ma almeno siamo vicini (a piedi) alla zona storica di Kota Tua e, col sole delle 12, una camminata richiede parecchio sudore. La zona è molto piccola e richiama all’ordine razionale degli olandesi; la piazza principale brulica di studenti che ci assalgono per un’intervista per una loro ricerca: ci concediamo alla prima, ma decliniamo gentilmente la seconda, la terza e la quarta (pare che sia quasi uno sport nazionale intervistare il turista). Sondata la zona, siamo costretti a rifugiarci nel Batavia caffè, il locale storico, forse il più antico di Giacarta che mantiene l’antico nome della città quando era un feudo olandese: belle atmosfere coloniali.

Nel pomeriggio, quando la calura inizia a scemare, ci spostiamo ni dintorni del Monas, in monument nàsional; ci facciamo lasciare dal taxi in corrispondenza della cattedrale, che fronteggia la moschea, un simbolismo di amicizia e tolleranza tra le religioni. La cattedrale è neogotica ed ha gli interni realizzati in legno tek, molto molto particolare. Proseguendo all0interno del parco della moschea si arriva, uscendo alle spalle della moschea al Monas e al suo parco, un’ oasi di pace e tranquillità dove i giacartesi si riversano per sfuggire al bordello e allo smog, incessanti giorno e notte.

Cerchiamo un posto tranquillo per la serata, impresa praticamente impossibile, per cui torniamo al Batavia caffè, almeno la zona è pedonalizzata: poi però trovi due concerti pop nella stessa piazza, ma comunque meglio del traffico. Nel frattempo, un mare di bancarelle di cibo da strada hanno invaso la parte a nord della piazza ma noi abbiamo già dato. A meno di non volersi buttare per musei Giacarta ha dato quasi tutto, si va a Yoji.

Yojiakarta

È un bel cambio da Giacarta a Yoji, i grattacieli – più o meno incompiuti – lasciano lo spazio a edifici bassi che richiamano il periodo coloniale e l’architettura tradizionale. Il centro che ruota attorno al Keraton – il palazzo del sultano di yoji – è quasi piacevole da girare, con i vari kampung – i paesotti sobborgo – ormai inglobati nella città. E all’interno del complesso del Keraton ci rintaniamo – causa pioggia incessante – in un bel ristorante che sfoggia un menù di piatti preferiti dai vari sultani della città ad un prezzo davvero onestissimo. Proseguiamo verso nord imbattendoci in bande di musica tradizionale ed un mare di gente che si concentra all’inizio di Marlioboro road per lo struscio domenicale; la via è davvero brulicante di venditori di cibo, avventori, ragazzi, persone in vena di shopping e forse siamo gli unici stranieri. Molto molto valido il negozio Hamzah batik; alla fine staremo in giro quattro ore, manco dovessimo fare le compere natalizie a via del Corso, con cena finale alle bancarelle nel mercato di fianco ad Hamzah Batik.

Sembre assurdo, ma i due templi – gallina dalla uova d’oro di Yoji – nonché il palazzo del sultano, sono chiusi al lunedi; per cui decidiamo di fare una capatina al mare; da Yoji le spiagge migliori sono vs sudest, che è un sudest bello lontano e che ci porta a superare montagne, risaie, villaggi, con questa vita che scorre ininterrotta ai margini delle strade. Scegliamo Ngrenean Beach che sembra quella che ha una baia più chiusa e quindi riparata dall’incazzoso oceano. Arrivati in zona c’è un posto di controllo per accedere a queste 5/6 baie dove si pagano 7.500 IDR (circa 0,45€) per accedere. La nostra baia è forse la più scenografica, piena di lance dei pescatori che usano la spiaggia a mo’ di parcheggio, lasciando davvero poco spazio ai bagnanti (noi due, praticamente). La baia è davvero bella, il cielo grigio, il mare scuro e non proprio liscio ed è davvero un peccato che i pescatori non abbiano cura di questa risorsa, utilizzando la spiaggia come pattumiera. Poi una serie di warung, i ristorantini indonesiani super-economici, fanno da mangiare, con pesce freschissimo ed impossibilità di comprendersi reciprocamente (niente inglese, ovviamente).

Al rientro, altro passaggio su Marlioboro road con un decimo delle persone, rispetto alla domenica, altro passaggio da Hamzah batik e altra cenetta alle bancarelle; prendiamo i biglietti del treno per dopodomani.

I templi

I due templi più famosi di Java sono entrambi nei “dintorni” di Yoji, se non fosse che servono più di due ore per coprire i circa 70km che separano Yoji da Borubudur. Ci vuole quindi una bella dose di chiappe di marmo, per coprire prima la distanza per Prambanan (a est, 1,5h) e poi per Borobudur (a ovest, altre 2,5h) e rientrare a Yoji (altre 2h).

Non c’è molto da dire: si tratta di due immense meraviglie dell’arte indù (il primo) e buddista (il secondo); Prambanan addirittura gareggia in maestosità con il più famoso Angkor Wat in Cambogia. In entrambi i casi è stato costruito un immenso parco giochi attorno ai monumenti, che hanno snaturato un po’ la collocazione originale che doveva essere nel bel mezzo della jungla, per entrambi. Comunque ci sono immensi prati e giardini dove riposare al fresco – e quando picchia il sole ce n’è un gran bisogno!

In serata di attende House of Ramintern, il ristorante più frequentato di Yoji – non solo da turisti – con una sala d’attesa degna di un ambulatorio medico, con sedie e televisore ad intrattenere con danze locali. Buono buono buono; si paga all’ordine.

Vs Malang

Mi piace tanto viaggiare in treno quando posso, lo preferisco di gran lunga ad uno spostamento in auto o in bus; la stazione di Yoji si trova all’estremità nord della Marlioboro e dal nostro hotel un taxi ride di venti minuti costa meno di 3€. La stazione ha un edificio coloniale, tante sale d’attesa al coperto ed è molto moderna in termini di display e informazioni al cliente. Il nostro primo treno indonesiano è pulito, puntuale, una sorta di intercity, non proprio economicissimo per gli standard del paese. A bordo si mangia ed il servizio di pulizia sul treno è continuo.

Arrivati a Malang alloggiamo in un hotel carino a 200m dalla stazione, situato strategicamente anche per la Raya Lawang road, la strada principale del centro, anche detta la Marlioboro di Malang (in pratica ci si riferisce alla strada principale sempre come la Marlioboro di …). Abbiamo poco tempo per trovare un’agenzia che ci porti al bromo la mattina seguente, con una certezza: non abbiamo voglia di partire a mezzanotte per vedere l’alba. Poiché pare che nessuno abbia voglia di partire alle otto del mattino, ci toccherà pagare per un’intera jeep (con un po’ di sconto) ma va bene cosi: 1,7 M IDR (circa 100€).

Malang ci dà subito una bella impressione; tantissimo verde, su ampi viali. E pare che il malanghesi ne vadano molto fieri. Abbiamo il tempo per una passeggiata lungo la Marlioboro di Malang e soprattutto per il kampung “turisticizzato” Kajoetangan. Si tratta di un esperimento governativo di bonifica di un kampung – anziché raderlo al suolo – realtà di solito molto povere, in maniera di renderlo fruibile anche al turismo. Il posto è molto carino e caratteristico, turisti in giro – sarà il periodo – solo noi due, un bel po’ di locals, tuttavia si vede che ha perso la sua anima originale.

Per cena ci aspetta lo stra-ottimo (e stra-caro per gli standard indonesiani) Melati, praticamente di fianco all’hotel, un ristorante specializzato in cucina vietnamita e thailandese in un’ambientazione quasi da film. Consigliatissimo.

Bromo

Con base Malang (l’altra è Probolingo) ci vogliono circa due ore e mezza per raggiungere il Bromo in jeep. Una ventina di minuti per uscire da Malang ed ammirare la quantità di verde che avvolge questa cittadina, per poi proseguire per campagne che – verso la fine – si inerpicano sulla caldera del Tennger, all’interno della quale si trovano poi il Bromo e il Batok, insieme ad altri vulcani, una cosa immensa. Il paesaggio diventa quasi montano verso la fine, prima di scendere nella caldera che ha una straordinaria variabilità di paesaggio, passando da una zona completamente verde ad un deserto di sabbia scura in prossimità del Bromo. La jeep ci lascia sull’altipiano ai piedi del vulcano, sono un paio di km a piedi passando di fianco al Batok, che sembra disegnato da un bimbo, tanto è perfetto il suo cono, fino all’attacco della scalinata che in 200 step porta dalla base al bordo del cono. Man mano che si cammina si sente un rumore che cresce, cresce, fino a diventare davvero imponente in prossimità del cratere; una volta in alto si scopre la maestosità del vulcano attivo, il suo respiro che sembra tuono, la sua potenza, i suoi fumi. Davvero bello. Peccato che nel punto in cui si arriva in cima tutti si dilettino a buttare immondizia nel cono – sarà mica uno sport nazionale? – ma basta spostarsi di lato di qualche metro perché la situazione migliori.

Al ritorno, in discesa, le ginocchia ballano, per cui – anche per far girare l’economia locale – optiamo per la discesa a dorso di cavallo, di nuovo fino alla jeep, che ci attende di fianco ad uno dei warung che orlano l’area di parcheggio. Un ennesimo mie goreng veg e poi di nuovo verso Malang, che alle ci attendono 7h di treno verso Semarang. Un altro treno pulito, in orario, giochi per i bimbi in stazione, stanze per la preghiera, caricabatterie e acqua gratis per tutti (zampillo) . Chapeau!

Vs jepara

Tappa a Semarang, dove arriviamo quasi a mezzanotte; ci sarebbero due ore e mezza in auto per arrivare a Jepara – da cui si imbarca per Karimun Jawa – ma nun ce regge er còre.  Ripartiamo il mattino successivo, siamo a Jepara a metà mattinata per scoprire che il ferry è il giorno successivo ore 11. Ci concediamo quindi un bel posto sul mare a Jepara con piscina. E meno male, perché – anche qui – la spiaggia si rivela un ricettacolo di plastica e immondizia varia, un vero peccato. Però il Jepara Marina Bungalow ha una gran piscina, un gran giardino e un ristorante occidentale, con una receptionist davvero brava, che parla bene inglese e che ci aiuta un sacco.

Per Karimun Jawa i biglietti si fanno solo on line, solo sull’app della compagnia di navigazione e solo con carte indonesiane: un mezzo incubo che richiede assistenza di un’agenzia o di una brava recptionist. Ci gustiamo il tramonto a bordo piscina con un grandissimo hamburger.

Il mattino seguente bisogno disbrigare le formalità di imbarco stile aereo – cambio del biglietto in carta d’imbarco, fila sul molo per l’imbarco sulla barca veloce che – in due ore – ci porta sull’isola. Tempo grigio, temporale all’orizzonte e mare impetuoso.

Karimun Jawa

L’isola è ben più grande di quanto mi aspettassi, da un capo all’altro ci saranno 30km; serve un motorino che viene offerto a tutti i turisti già mentre sono sulla passerella per sbarcare. Nessuna formalità: niente contratto, niente patente, niente carta di credito, tre minuti di contrattazione sul prezzo e ok, ci vediamo qui tra cinque giorni quando riparti. E il resort che abbiamo scelto è proprio all’altro capo dell’isola, per cui sarà almeno mezz’ora di guida su brecciolino e strade bucate per andare e venire dal paesello del porto.

A Karimun Jawa la vegetazione è esplosiva e c’è anche un parco delle mangrovie, esplorabile su una passerella di legno lunga  2km; le spiagge non sono tantissime e non sono neanche troppo larghe. In compenso sono pulitissime e la barriera corallina è li, appena ci si tuffa. Siamo praticamente gli unici in spiaggia, ma purtroppo il tempo non ci assiste sempre e saranno giorni di alternanza sole /pioggia.

Una giornata – ma anche due – va dedicata ad un giro in barca dei vari atolli nei dintorni dell’isola principale. In particolare il banco sommerso è una delle più belle barriere mai viste … e ne ho viste tante.

Alla fine KJ mi lascia il gusto dell’esploratore, della prima volta. A Febbraio siamo quasi gli unici turisti, i traghetti sono pieni di locals, il vero divertimento è perdersi nelle stradine che si dipanano dall’unica strada principale, tuffandosi nella jungla, alla ricerca di una caletta. Non c’è molta pressione turistica – sebbene gli alberghi siano tanti – e non ci sono negozi o ristoranti che strizzino l’occhio agli occidentali; in poche parole, è ancora genuina.

Samarng

Al rientro a KJ dobbiamo passare per Semarang per il treno vs Giacarta. Gli orari del traghetto e del treno richiedono lo stop-over in città e la serata ci permette anche di scoprire Kota Lama, il centro storico molto carino, tenuto bene e ben più ampio di quello di Giacarta. Menzione d’onore per lo Spiegel, ristorante internazionale – che poi era italiana.

IL giorno successivo ci attendono sei ore di treno verso Giacarta, attraverso una natura rigogliosissima, e poi ci si imbarca verso Abu Dhabi.

Good to know

Taxi: Per spostarsi in città, l’app GRAB funziona davvero bene e si paga all’autista, senza dover usare la carta di credito. Un tragitto di venti minuti viene all’incirca quattro euro.

Treni: ogni stazione ha più o meno regole proprie; a Yoji abbiamo acquistato il biglietto il giorno prima con carta, a Malang solo cash, a Semarang non c’è stato verso di acquistare il biglietto il giorno prima. I treni sono molto comodi, puliti e puntuali e non si muore certo di fame o sete.

Traghetti: ogni compagnia ha la sua app; è praticamente impossibile conoscere gli orari in altri modi, non esistono biglietterie fisiche. Le agenzie si limitano a comprare online il biglietto e a stamparlo, applicando una commissione. Le app accettano – quasi sempre – solo carte di credito indonesiane. Per andare col fast ferry a Karimun Jawa, l’app di riferimento è quella della compagnia EXPRESS BAHARI.

Voli interni: ce ne sono tanti di varie compagnie, a prezzi abbordabili e tranquillamente acquistabili on line. Le compagnie del Lion Group – Lion Air, Batik Air, ecc – offrono la maggior parte dei collegamenti. L’app di riferimento è BOOKCABIN.

Ristoranti: come li intendiamo in Europa sono davvero pochi: oltre le bancarelle ci sono i warung, piccoli ristorantini a gestione familiare che servono più o meno tutti le stesse cose. Un vero peccato che si faccia un grande uso di noodles liofilizzati a cui aggiungono solo acqua calda.

Gli indonesiani sono estremamente carini, gentili, ossequiosi nei confronti dei viaggiatori e ne sinceramente incuriositi. Non c’è stato un momento in cui ci siamo sentiti minimamente in pericolo … anche se a Jakarta hanno “prelevato” il cellulare dalla borsa della signora.

In Indonesia non ci sono cani; gatti, polli e galline a bizzeffe. Pare che li mangiassero (i cani) … ora non più.