DA SAPERE
Una delle vacanze con la più lunga gestazione: occorre andarci a Febbraio / Marzo altrimenti poi attaccano i monsoni e saranno piogge torrenziali quasi perenni. E per chi lavora in ufficio, staccare a Febbraio / Marzo non è facilissimo. Per cui un super itinerario magari un po’ di corsa, per vedere il più possibile.

Nel mese di Febbraio 2015, 1 EUR = 1.150 Kyat (MK). Per il cambio, solo dollari in perfette condizioni. La minima piegolina o segnetto di qualsiasi tipo porterà al rifiuto della banconota al momento del cambio. Bancomat e carte di credito praticamente inesistenti. Le poche cose acquistabili con carta (biglietti aerei) hanno ancora transazioni manuali, quindi ci vuole una carta di credito con cifre a rilievo, niente carte di debito o ricaricabili.

Molto spesso sentirete come il suono di un bacetto e qualche volta noterete che quel bacetto è indirizzato a voi, ma non si tratta di un intraprendente dongiovanni; si tratta di un suono usato per richiamare, per dire “ehi, tu”.

Credo che sia l’unico paese al mondo che ha la guida a destra e le auto hanno il volante a destra. Questo perché, di punto in bianco, la giunta militare (o il governo del paese) ha deciso che bisognava cambiare senso di marcia per affrancarsi ancor di più dal passato coloniale inglese. Ma gli importatori perseverano con l’acquisto di auto con guida a destra. Perché?

A Yangoon nessun motorino; piuttosto un fiume di macchine in piena, rispettoso dei semafori. Le attese nel traffico sono epiche; serpentoni infiniti di 3 o 4 corsie. E il tutto per “colpa” di un motorino che un giorno ha urtato l’auto di un generale. Dal giorno dopo motorini vietati in tutta la capitale. Severi ma giusti!

MANDALAY
Mandalay era descritta come la quintessenza della città asiatica; parola di Kipling … peccato che non ci fosse mai arrivato, aveva semplicemente idealizzato questo luogo nella sua mente filo-asiatica. A me Mandalay mette addosso quella strana euforia che mi infondono tutte le città asiatiche: il caos organizzato, la sporcizia a diversi livelli e la purezza dei templi, gli odori di fogna e l’incenso. Qui c’è anche tanta polvere, ma il personale del Sahara hotel è molto servizievole – al limite del servile – e stanno sempre li a ramazzare con delle piccole scope di saggina.

La location è fenomenale; siamo a 2 passi da uno degli angoli del forte che domina il centro di Mandalay che non è piccola, ma neanche così immensa. Dobbiamo mettere a frutto la mezza giornata a disposizione, nonostante il fuso che ti becca sempre quando viaggi verso est. Da veri impavidi, incuranti dell’assenza di codice della strada noleggiamo subito un motorino in hotel (5$ mezza giornata) rincuorati del fatto che qui i motorini son davvero tanti, ma almeno ci si ferma al semaforo rosso. Mandalay ha una pianta romana con le strade perpendicolari ed è facilissima da girare, con pochi riferimenti.

Vicino al forte, sul lato est, ci sono un bel po’ di templi da non perdere. Sono davvero tanti e si va dal candore delle bianche guglie della Kuthodaw Pagoda, la splendente Sandamuni Pagoda, agli intarsi del tempio di teak Shwenandaw Monastery. Tanti turisti, tanto market nei paraggi. All’interno del forte c’è una ricostruzione di quello che fu il palazzo reale quando Mandalay era capitale; si paga un biglietto che nessuno controllerà (questa sarà una costante del viaggio); all’interno del forte ci sono degli alloggi militari per cui bisogna attenersi a delle regole: bisogna varcare la porta spingendo il motorino spento e non si deve abbandonare la strada principale centrale, divieto assoluto di inoltrarsi nelle viuzze interne dove ci sono i militari. Hanno fama di essere feroci ma in due settimane ne vedremo davvero pochi in giro e assolutamente ben disposti, almeno verso i turisti.

Proseguiamo verso sud alla ricerca del Jade Market e della Gold Leaf Factory, ma qui il dettaglio della nostra cartina non aiuta; ci arrendiamo abbandonandoci ad una degustazione di fritti presso un paio di venditori ambulanti, prima di risalire verso il fiume e perderci in un mercato agricolo lungo lo Shwe Ta Chung Canal. Poi un pochino più a ovest, fin sulla sponda dell’Irrawaddy; aspettavamo di trovarci su un lungofiume con qualche caffè dove rinfrancarci ed invece si tratta di una vera e propria sponda portuale, con una riva molto sabbiosa e polverosa dove le imbarcazioni locali si spiaggiano per scaricare le loro merci; un bel safari fotografico al tramonto comunque. Finiamo la giornata – a pezzi – giusto alle spalle del nostro hotel, dove la Lonely Planet ci segnala un ristorante Nepalese: conto irrisorio, ma nessun cibo che ricorderemo.

SAGAING e dintorni di Mandalay
Ore 8 pronti, anche se sono le 8,30 (eh si, il Myanmar adotta mezz’ora di fuso rispetto alla Thailandia). Abbiamo appuntamento con Sonny, il taxista che ci ha presi in aeroporto, per una giornata nei dintorni, che hanno davvero tanto da offrire. Prima di uscire dalla città gli chiediamo del Jade market e del Gold Leaf Shop che non abbiamo trovato ieri. Il negozio di giada è bello caro e un po’ pacchiano. No, grazie. Il negozio dove si producono anche le foglie d’oro che poi si appiccicano sui Budda è un bel po’ turisticizzato, ma ne vale la pena, sia per vedere la lavorazione certosina, sia per osservare il viavai di Birmani e le tipologie di acquisti che fanno. E poi il pacchettino da 10 foglie d’oro a 3 US$ è un buon affare, soprattutto per loro.

Prossima fermata Mahamuni Paya, un vero e proprio complesso templare con mercati annessi. In più è anche domenica e c’è parecchio casino, ma bello il primo approccio, con questo enorme corridoio pieno di negozi più o meno sacri prima di approdare al tempio vero e proprio. Solo gli uomini possono accedere alla sala col budda e ben coperti: nessun problema per chi – come me – ha i pantaloncini: indosso la tunica di rito e mi confondo tra i Bamar, fin dentro la sala con l’immagine del Budda. Una volta fuori proseguiamo nel quartiere, in cui c’è anche una zona di scultori di immagini sacre del Budda. Bello davvero.

Proseguiamo verso l’Università Buddista di Sagaing, che pare sia la più grande del mondo; effettivamente si tratta di un’area molto vasta con scuole, mense, dormitori e templi. A differenza di altri paesi, manca quell’aura di misticismo e deferenza, come in Laos o in Thailandia. Si fotografa e si chiacchiera tranquillamente con quei pochi monaci che masticano inglese. A tratti sembra quasi un safari fotografico, tanti sono i turisti portati qui con taxi e minivan. Comincio a non sentirmi a mio agio … andiamo via.

Sagaing offre un bellissimo colpo d’occhio, attraversando il ponte sull’Irrawaddy; tantissimi templi, ma ognuno in cima ad una collinetta diversa, ognuno con la sua scalinata con tetti spioventi: sono scalinate davvero lunghe che risalgono intere colline e allora viva santa macchina. Vistiamo il più famoso, il Umin Thounzeh, con la terrazza dei 45 budda e poi il Pon Nia Shin, con un paio di budda belli pacchiani ed una splendida terrazza sul fiume. Ad ora di pranzo abbiamo la prima esperienza con le ferree regole del ministero del turismo birmano: nel ristorante dove ci porta Sonny lui non può entrare e allora meglio pranzare alle bancarelle, ma con Sonny. Nonostante proclami allarmanti, la strada da Sagaing a Mingun dura solo 45 min e non è neanche malaccio come fondo. Il tempio Pa Hto Taw Gyi di Mingun è grosso, ma tanto, è quasi una collinetta. L’interno in proporzione è piccolissimo e niente di che, ma il colpo d’occhio, specie dalla sommità della vicina Mya Thein Tan Pagoda, vale il viaggio, così come per la Mingun Bell, la campana gigante che porta fortuna a chi passa sotto. Nel mezzo, tantissime bancarelle.

Rientrando, siamo in perfetto orario per il tramonto sul ponte di legno più lungo del mondo, U-bain bridge, sul lago Taungthaman, vicino Amarapura. 1.200 m di ponte di legno sopraelevato, costruito nel 1850, che ne fa non solo il più lungo, ma anche il più antico ponte di legno del mondo. Sarà che è domenica, ma c’è un enorme via vai, soprattutto di locali; un bel melànge di fauna locale, regionale e internazionale, con grandi sorrisi dispensati dai locali nei nostri confronti. E tutti, sul ponte e nelle barche sul lago, in attesa che il sole faccia plof. Alla sera, il Il Too too restaurant non ha piatti vegetariani, ma di fronte il Rainforest è un thai per turisti; magari un po’ caro per gli standard del Myanmar, con i suoi 13.000 MK (circa 12€) per due curry e un involtino primavera.

A BAGAN lungo l’IRRAWADDY
Alle 6.30 del mattino le banchine lungo l’Irrawaddy sono in pieno fermento; la nostra è decisamente la banchina dei turisti danarosi, quelli che possono permettersi di pagare un biglietto di 40$. In realtà siamo un mix di viaggiatori zaino in spalla, grupponi organizzati all-inclusive e qualcuno che vorrebbe tirarsela un po’ con un codazzo di 15 valigie al seguito. Italiani solo noi; e Daniela from Bari, che viaggia con la sua amica belga. Il nostro è un battello su tre ponti, che ha visto giorni migliori ma, tutto sommato, paragonato al resto, fa la sua porca figura. Il fiume é piatto e pacioso, una larga autostrada per chiatte che sembrano quasi ferme nel loro lentissimo incedere. Passiamo la giornata tra sole, musica, libro, birre; 12h di navigazione sono troppe, ad averlo saputo prima forse non l’avremmo acquistato, ma iniziamo a scontrarci con l’impossibilità del sapere un orario, una durata con certezza, a causa della superstizione dei Birmani. L’unico panorama degno di nota é stato quello di Sagaing, appena partiti. Poi banchine sabbiose e alberi da frutto. Emozioni pochine.

Giunti a Nyaung-u ci incamminiamo a piedi lungo la strada sterrata che porta al paese, il nostro hotel ci sembra ad un tiro di schioppo; purtroppo la cartina si rivelerà fuori scala e a metà strada alziamo bandiera bianca e fermiamo un calesse: ottima scelta, dato che il Large Golden Pot Hotel è ancora lontanuccio. Le stanze nella parte nuova non sono niente male ed il tizio alla reception ci aiuta un bel po’ con l’organizzazione della giornata. Al tavolo dell’Aroma2 ci attende una discreta cena indiana e scambiamo anche quattro chiacchiere con due ragazze italiane che ci regalano dei fossili recuperati lungo la riva del fiume. Peccato per il casino dei generatori in hotel; i tappi per le orecchie sono un must in Myanmar.

Fatto check-out e lasciate le borse in hotel, noleggiamo delle e-bikes e via verso i templi. Ho letto talmente tanto che mi sembra di esserci già stato e infatti mi oriento come un falco. L’area è troppo vasta per essere visitata a piedi; gli edifici davvero notevoli non sono poi neanche tanti, ma è la miriade che spiazza. Da non perdere l’Ananada Paya e il That bin nyu paya. Alle tredici caldo e sole soffocano e ci rifugiamo al Golden Myanmar 2, a due passi dalla Ananda Paya, cucina tipica bhamar, difficile uscire dai loro piattini; conto da pochi EUR. Torniamo all’hotel per le 17, dopo il rito del tramonto visto dal Dhamma Yan Paya, con tutta la piana dei templi che vira al rosso ocra col calar del sole. Alle 17,30 puntualissimi, un camioncino ci porta alla bus station, parecchio fuori città. Sarà una notte breve verso il lago Inle, ma tutto sommato comoda, in un bus davvero spazioso, inclusa cena in una locanda fetida che inneggia ad Aun San Su Khy.

INLE LAKE
Alle quattro del mattino veniamo scaricati nel mezzo del nulla, un paio di km fuori Nawyungshwe; c’è un solo taxi che ci porta ad un solo albergo. Prezzo onesto del taxi 1.000 MMK, ma l’hotel è davvero pessimo, con i piccioni in stanza e niente acqua.

Niushaweng replica lo schema di villaggio polveroso che non riesce a liberarsi dalla dittatura della monnezza e dai sacchetti di plastica, un vero peccato. Facciamo in tempo a perdere la barca del mattino e quindi perdiamo il mercato; basta comunque incamminarsi verso il molo per essere affiancati dai barcaroli, già lungo la via. Contrattiamo un minimo e la barca è tutta per noi per 12.000MK. L’accesso al lago avviene lungo una sorta di ampio canalone, alla fine del quale i pescatori si mettono in posa a favore di obiettivo, allungando poi la mano verso la nostra barca che, come da copione, si avvicina a loro. L’inizio della gita è abbastanza piatta e i famosi orti galleggianti sono visibili solo in lontananza. Il villaggio su palafitte di In Paw Khone è abbastanza interessante, ma le trappole per turisti in forma di negozi di sete, lavori in ferro battuto e ristorante sono dietro l’angolo. Per carità, nessuna truffa, sono tutti molto gentili e non c’è nessuna pressione per comprare, ma il fatto di non averlo scelto io, un pochino mi indispone. Ma giusto un pochino.

Nel pomeriggio si continua il via vai per canali, ma si tratta quasi esclusivamente di negozi e, anche li dove ci sono le donne di etnia Karen, scopro che si tratta di impiegate messe li per i turisti. Alle 19 timbrano il cartellino (metaforico) e tornano a casa. Bello il tempio Shwe In Dein con le sue tante mini-pagode, alcune antiche, alcune appena ricostruite e anche molto bello il Phaung Daw Oo Paya, tempione con tanto mercato attorno. Sulla via del ritorno attraversiamo anche gli orti galleggianti, molto particolari, ma che avrebbero bisogno di una vista dall’alto – e non a pelo d’acqua – per essere apprezzati a pieno.

Al rientro alla base siamo costretti a trascorrere un paio d’ore in agenzia per trovare un benedetto volo che ci porti a Ngapali per non essere costretti a rivedere le tappe del nostro tour; qui si fa ancora tutto per telefono e i biglietti aerei sono compilati a mano. Cambio hotel per la notte, prenotandolo su booking: al nostro arrivo la stanza non è disponibile. Comunque nessun problema, mezz’ora e mettono fuori il personale da una stanza per assegnarla a noi; cena di ottimo livello alla Live Dim Sum House, a base di ravioli cinesi di ogni forgia per soli 9.200MK.

NGAPALI
Per tagliare via 12h di strade sterrate, foresta e montagne (quasi) insormontabili c’è l’ATR. Si proprio quel piccolo aereo ad eliche: pare che li abbiano acquistati tutti qui in Myanmar per fondare ben sette compagnie aeree nazionali tra le quali non c’è neanche un briciolo di concorrenza; scarto di prezzi tra l’una e l’altra massimo 3 US$. E dopo 1h di volo sei a Ngapali: Cartolina, spiaggia dorata, palme, mare blu. Cinque km di costa votata al turismo e le case dei pescatori spostate tutto verso l’estremità sud della baia.

Ngapali non è un vero e proprio paesino, quanto piuttosto una sequenza di resort che vanno dall’Hilton all’ex hippy; insomma, c’è scelta. Ogni tanto, tra un resort e l’altro, delle ville private e sorvegliate, immagino per i marduffoni del partito al potere. Un luogo molto gradevole che sono riusciti a non rovinare con palazzoni mega-hotel sulla spiaggia. Sull’altro lato della strada alle spalle degli hotel sono fiorite un po’ di attività commerciali a supporto dei turisti: principalmente ristoranti e noleggio bici e motorini.

Il Royal Beach Motel è pulito, poco pretenzioso, ha delle piccole palazzine di due piani coperte da palme. Pare sia royal per mezzo della Royal Rachaing Cusine, la cucina locale, ma … ehi, che prezzi!!! Comunque non amiamo auto-esiliarci nel resort, per cui la sera sfidiamo il buio della strada e i cani randagi e ceniamo li dove riesco a trovare qualche piattino creativo, come i gamberi al lemon grass del ristorante Treasure.

La giornata dell’ozio: il posto è molto molto tranquillo, con l’elettricità che viene dai generatori che alle 22 si spengono, per cui cala il buio e il silenzio. Siamo svegli dalle 7.30 e – colazione inclusa – alle 8.30 siamo già in spiaggia. A 500m dal nostro resort, lungo la spiaggia arriviamo al villaggio dei pescatori. Tanti bimbi, tanti cani (anche uno morto, ndr) tanto pesce ad essiccare. Mentre siamo li, tornano anche le barche dalla battuta di pesca e possiamo fotografare scarico e divisione del pescato tra i membri del villaggio, con una piccola asta dei tonnetti tenuta da una tipa che sembra molto tosta e rispettata dagli altri abitanti del villaggio. Nel pomeriggio becchiamo un’agenzia di viaggi non lontano dal resort, sulla strada dell’aeroporto, che con grosse fatiche ci procura il volo per Sitwe. Alla sera grande grigliata di pesce super-fresco al ristorante Ambrosia, che ci ha anche noleggiato il motorello nel pomeriggio, prezzo onestissimo e servizio lentissimo.

Dobbiamo impegnare bene il nostro tempo, per cui: gita in barca. Soppesiamo bene le varie offerte (due) praticamente identiche e scegliamo il barcarolo pù simpatico. L’altro si offende sostenendo che gliel’avessi confermata, ma in realtà avevo solo chiesto il prezzo. Barriere linguistiche. In barca siamo soli (meglio) partiamo dalla riva del resort per circumnavigare Perl Island – l’isolotto di fronte al resort – con una prima sosta per lo snorkeling. Proseguiamo il periplo dell’isola per arrivare alla parte sud della baia, dove si trova l’altro villaggio dei pescatori; vorremmo scendere, ma il capitano ci dice che è davvero sporco. Poco più in la un Budda gigante domina la baia dalla maestosità dei suoi 16 metri d’altezza … peccato sia quasi impossibile fotografarlo a causa del rollio della barca. Al ritorno veniamo sbarcati su Perl island dove c’è un piccolo ristorantino (per turisti) e assaggiamo per la prima volta, innamorandocene, la Lay-Phe-Tok, l’insalata di tè fermentato birmana. Un po’ agliata, ma svilupperò una vera e propria dipendenza. Il pomeriggio scorre mollo, schiantati sui lettini. Alla sera decidiamo di replicare al Treasure e il proprietario dà di matto, come se fossimo i primi clienti che ritornano. Ci coccola e quasi non vuole lasciarci andare via. Gli chiedo dettagli del Lay-Phe-Tok, l’insalata birmana di cui siamo innamorati. Neanche mi fa finire la domanda che scompare per riapparire dopo cinque minuti carico di buste di tè fermentato, gentile omaggio della casa.

SITTWE e MRAUK-U
Un paio d’ore al mare e poi di nuovo taxi, aereo ATR, grande delta sabbioso/lacunoso dall’alto del nostro oblò all’atterraggio e benvenuti a Sittwe. Una volta atterrati, sembra di non essere più in Myanmar, o meglio, in Birmania. Qui siamo ai confini col Bangladesh, in una terra di un’altra etnia che non è quella dei Bamar. Veniamo letteralmente accerchiati dai tassisti, non mi interessa Sittwe, cerco un passaggio verso Mrauk-U, dato che con il battello è davvero complicato (un solo battello a giorni alterni alle 7 del mattino); si scatena anche la rissa tra di loro per chi debba caricarci e allora bye bye, ci avviamo a piedi lungo il vialone dell’aeroporto. Con un tuk tuk preso fuori, prima andiamo all’imbarcadero (che magari la nostra guida non è aggiornata) ma non troviamo nessun battello, per poi ripiegare verso il centro città, per battere tutte le agenzie di viaggio.

Le agenzie sono omertose, sembra quasi una seccatura per loro organizzare una jeep per Mrauk-U (e una jeep serve, la strada è in via di costruzione e per lunghi tratti sterrata). Si parte da richieste di 300 US$, dopo 2 ore estenuanti girando tra agenzie e trattando trattando trattando sotto un sole che ammazza, chiudiamo per 140 US$. Jeepone nuovo tutto per noi e autista che non capisce neanche YES.

Saranno 3h dure di sterrato ed arriviamo a Mrauk-U al tramonto. Giusto il tempo per capire che qui le guest houses sono davvero moooolto basic e dirigerci verso lo Shwe Tazin hotel; sarà anche caro, ma una signora stanza con frigo e aria condizionata, mentre fuori è un turbinio di polvere e di strade sterrate. Attraverso il portiere dell’hotel lasciamo la serata libera al driver e ci avventuriamo tra la polvere e la luce dei pochi fari delle macchine alla ricerca di un ristorante. Mentre camminiamo tra le poche botteghe di legno ancora aperte scopriamo una piccola agenzia con bus che fa la spola con Sittwe per soli 14 US$ (e qui parte il bestemmione). Alla fine ceniamo praticamente di fianco all’hotel. Sono tutti Birmani, ci guardano con curiosità; il menù anche è tutto in birmano. Alla fine mangiamo anche bene, buttandoci su quei tre o quattro piatti di cui conosciamo il nome; 4€ per quattro portate direi che può andare.

Alle sette siamo già operativi; Mrauk-U non è grandissima e i luoghi da visitare si concentrano in tre aree tra le quali ci si deve spostare in auto; la grande differenza tra Mrauk-U e Bagan è che la prima è viva, vissuta da gente vera, con i loro mestieri, i loro monaci buddisti, le loro bestie. Bagan è popolata di turisti, per quanto sia molto più grande. In questa lunga mattinata gli occhi si riempiranno di foto scattate e foto non scattate, le narici si riempiranno di incenso e degli odori del mercato (bello anche quello, da non perdere) ed anche il viaggio di ritorno verso Sittwe non sarà per niente avaro di emozioni.

Arriviamo a Sittwe in prossimità del tramonto; molliamo i bagagli al hotel e ci incamminiamo lungo la strada principale per vedere le volpi volanti che popolano un paio d’alberi vicino alla torre con l’orologio. Abbiamo voglia di birretta al tramonto, ma la punta col faro è lontana, per cui risciò biposto. Mi dispiace quasi per il tipo, fa davvero una gran fatica e mi sembra parecchio fuori forma per una pedalata con due manzi come noi. Purtroppo al faro – li dove tramonta il sole – non c’è un bar propriamente detto … una lunga spiaggia melmosa con un po’ di bimbi che giocano a pallone e un hotel. Rientriamo con il risciò ma io ogni tanto scendo per aiutare il ciclista e alla fine arrotonderemo i 4 US$ pattuiti a 5 US$. Ceniamo in un ristorante a caso lungo la via, mangiamo abbastanza male, ma la serata la ricorderemo per l’odissea nel piazzare l’ordine e per i camerieri bambini che proprio non riescono a staccarsi da quella strana signora occidentale che siede al tavolo con me.

Abbiamo quattro ore prima di partire, perfette per un giro al mercato, a due passi dal nostro hotel. Quello coperto è solo abbigliamento e cartolerie, ma nelle viuzze adiacenti e sul retro sul fiume è un bellissimo girone dantesco alimentare. Quello che mi colpisce maggiormente sono degli enormi pescioni essiccati che sembrano quasi dei prosciutti. Siamo in aeroporto con comode due ore e mezza di anticipo, ma meglio così, dato il trambusto causato dalla cancellazione di un altro volo. Molliamo i trolley al check-in e ci concediamo un buon pranzetto alla lounge, ovvero un chiosco sotto le palme appena fuori dal cancello dell’aeroporto, assieme a tutti gli altri turisti in partenza. Alla fine saranno tre le ore di ritardo; ci fiondiamo a casa degli amici italiani che lavorano a Yangoon per una meravigliosa cena a base di spaghetti al pomodoro e vino italiano.

YANGOON
Yangoon (e la Birmania tutta) ha un cuore: la Swadhong Paya, una meraviglia dorata. Non si tratta semplicemente di un tempio, ma di un vero e proprio microcosmo che gravita attorno al cupolone dorato. Credo sia uno dei monumenti su cui mi sia più soffermato in vita mia. Arriviamo verso le dieci e ci perdiamo tra le migliaia di statue e micropagode che circondano la pagoda centrale. Verso ora di pranzo ci allontaniamo per esplorare il mercato in prossimità di uno dei quattro ingressi principali (quello vs est) e per visitare anche l’enorme Budda reclinato presso la Chaukhtatgyi Paya e il mestoso Budda seduto presso la Ngahtatgyi Paya, entrambi maestosi e da non perdere. Ma letteralmente muoio dalla voglia di tornare alla Swadhong Paya per godermi lo spettacolo al tramonto. E sarà uno spettacolo fantastico con le luci che si affievoliscono man mano e le candele che si accendono per illuminare le tante statue. A casa dei nostri amici italiani ci attende un risotto zafferano. What else?

Ultimo giorno a Yangoon, ce la prendiamo un po’ più comoda; ma dal lago (zona di ambasciate, generali e dove ha casa anche The Lady ASSK) a downtown bisogna affrontare un traffico tra i peggiori al mondo; un fiume fermo, congelato, di auto con la bizzarria della guida a destra e volante a destra. E nessun motorino in giro; cosa non può fare l’ira di un generale! Bello il Bogyoke Market (anche detto Scots Market) anche se molto ordinato per gli standard Birmani, si perde un po’ di poesia; di fianco uno shopping center con un raffinato food court dove riposare gambe, chiappe e reni. Proseguiamo nel dedalo di strade tra lo Scots Market e la Sule Paya, scene di Bangla, India, Cina si susseguono sotto i nostri occhi. Ancora mercati di ogni genere, tempio Indù con una miriade di piccioni e minareti di moschea. E infine la Sule Paya, che – porella – sfigura nel confronto con la Swadhong Paya. Abbiamo giusto un quarto d’ora per rilassarci all’ombra nel Vandoola Park e ammirare lo stile liberty del Post Office costruito dagli Inglesi; tra due ore il taxi ci porterà da casa all’aeroporto. Tocca sbrigarsi … c’è un gran traffico.

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